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Monday 22 October 2012

Run Richmond Riverside - 20 ottobre 2012 Se...sto così, non mi lamento


Dopo la grande prestazione in Patria di inizio ottobre, dettagliatamente descritta nel post precedente, il fratello coach mi ha segnalato qualche settimana fa una gara inglese in apparenza piatta e veloce.
 
La premessa è che, non avendo in vista alcuna sfida sulla tanto amata lunga distanza (mezzamaratona), i miei allenamenti sono -e sempre più saranno nelle prossime settimane- finalizzati alla potenza ed alla velocità piuttosto che alla resistenza e all’alto chilometraggio. Ahimé, come accennavo, io prediligo più le lunghe distanze e la resistenza, ma il coach ha ritenuto giusto e più utile lavorare su altro, visto che i margini di miglioramento sui 5 e 10 km appaiono vastissimi. Le disposizioni del coach non si discutono ma si seguono alla lettera!
 
Il rigido inverno inglese e le frequenti trasferte di lavoro sono elementi di cui purtroppo dovrò tenere conto nei prossimi mesi per una pianificazione mirata ed efficace degli allenamenti e delle gare. Adesso è il periodo delle distanze brevi, è giusto così e lo devo accettare.
 
Questa volta, dicevo, lo scenario di gara è una lingua di terra sulle sponde del Tamigi, a due passi dal glorioso stadio del rugby di Twickhenam e dell’immenso parco di Richmond, alle porte di Londra. 
L’evento, che coniugherà una sana giornata di sport alla raccolta fondi per un’associazione benefica che si batte per la lotta contro il cancro, vedrà un’alta forbice fra il numero di iscritti (1029) e quello degli arrivati al traguardo (688). Una volta in loco - e dopo i primi metri di gara - capirò le ragioni di tante defezioni.
La corsa è presentata come piatta e "adatta alla ricerca del proprio PB", anche se gli organizzatori, alla vigilia, hanno avuto l’onestà di specificare sul sito internet dell’evento che, in caso di pioggia, il tracciato sterrato "sarebbe diventato molto fangoso e il sentiero, pieno di buche, si sarebbe riempito di pozzanghere". 
 
Altra cosa che mi lasciava perplesso, in fase di studio della mappa del percorso, era il tipo di tracciato. In particolare, a farmi innervosire erano le due inversioni a “U”, con tanto di risalita in senso inverso di marcia sul lungofiume, collocate intorno ai km quarto e nono.  Queste, oltre a far perdere il ritmo e a rallentare il passo, avrebbero costretto inevitabilmente a dei pericolosi zig-zag per evitare incidenti frontali con i podisti lasciati alle spalle.

Bello scenario, ma non ideale per la corsa
 
A completare il quadro non proprio favorevole, va segnalato che il del giorno prima della corsa la zona è stata falcidiata da 12 ore di pioggia ininterrotta...altro infausto presagio.
 
La sveglia al mattino della gara è alle 6.30, il tempo di aprire le tende e constatare che fuori, oltre al buio, ad attendermi è una nebbia piuttosto fitta. Vinta l’iniziale tentazione di rimettermi a letto e dormire fino a mezzogiorno, mi sono detto, in uno slancio di ottimismo, che la presenza della nebbia avrebbe significato vento debole o assente, quindi condizione ideale per correre. Che cosa non si farebbe pur di sopportare il tempo schifoso dell’Inghilterra e vincere la meteoropatia...
 
Alle 7.40 esco di casa con il mio bolide: la nebbia si è leggermente diradata e di certo non ci sono problemi di visibilità, il cielo è grigissimo, le nuvole basse, il termometro segna 8 gradi ed io mi sento felice perché mi sembra faccia addirittura caldo (pensa te...sto diventando come i nord europei che, a dicembre, girano per Roma in bermuda ed infradito).
 
Dopo una mezzoretta di guida, passato in rassegna il tempio del Rugby, avvistati numerosi corridori all’interno del parco di Richmond e ammirate delle ville meravigliose, circondate da veri e propri poderi, parcheggio senza problemi a meno di un chilometro dallo start e, appena giunto sul lungo Tamigi, mi avvio in zona partenza dove noto subito:
 
· Vari stand che renderanno l’evento piacevole e ben organizzato
· Tantissime persone con famiglie e cani al seguito e buona segnaletica nell’area start-finish
· Tenda per deposito bagaglio
· 8 bagni chimici, dotati di sciacquone e lavandino (un lusso)
· Ottima distribuzione del pacco gara, “a zone” ed in base al numero di pettorale comunicato a ciascun atleta via e-mail qualche giorno prima
· Piacevole musica, interrotta da una speaker che tentava invano di movimentare i pacati e silenziosi podisti inglesi
· Tanto, tanto e tanto fango, buche ovunque, partenza e arrivo su erba alta

In cuor mio faccio finta di essere ottimista e di non vedere quello che purtroppo è evidente a tutti: il percorso è stretto, completamente sterrato e scivolosissimo a causa del fango e delle pozze.


Zona partenza e stand

Transenne e zona arrivo

Rito di iniziazione al fango che ogni padre inglese deve compiere
Imprecando per non avere portato dietro le scarpe da trail, decido di lasciare le mie leggere Adidas arancioni nella borsa e di mettere ai piedi le Mizuno da allenamento (A3), giusto per evitare storte e cadute.
Inizio il mio riscaldamento percorrendo il lungofiume sul tracciato di gara, appena accelero la suola delle scarpe slitta e pattina, saltello lateralmente come un idiota o allungo la falcata per evitare di finire nel fango o nelle pozze. In alcuni punti addirittura è inevitabile mettere i piedi “a bagno” visto che non esistono vie di fuga rispetto all’angusto tracciato campestre. Percorro 2 km e a malapena riesco a fare 4 allunghi senza cadere.
 
Alla partenza la speaker chiederà a chi prevede di gareggiare sotto i 40’ di farsi avanti e attestarsi in “prima griglia”. La disciplina degli inglesi renderà l’operazione efficace, rapida e per me utilissima per evitare imbottigliamenti e nei primi metri di corsa. In questa griglia si presenterà una quarantina di anime, fra cui varie donne. Mi sembra strano che possano chiudere una gara campestre del genere sotto i 40’ e le mie impressioni si riveleranno accurate. All’arrivo chiuderanno sotto questa soglia solamente dieci podisti e, fra loro, non figurerà alcuna donna.
 
Alla partenza, puntualmente avvenuta alle 9.30, mi attesto nel gruppetto dei primi quindici, ma non riesco in alcun modo a controllare la situazione, visto che passerò tutti i dieci chilometri di gara con gli occhi inchiodati al suolo, cimentandomi in improbabili manovre per evitare le sabbie mobili fangose o di “affogare” nelle pozze.
Gli inglesi, questi maledetti amanti del cross-country, sembrano godere ad ogni affondo delle loro reali caviglie nella melma, io sono incazzato come un toro, semplicemente pattino e non ho grip. Rimpiango il letto ed un lungo sonno domenicale cui ho rinunciato per questa cavolo di corsa.
 
Non conto quanti podisti mi precedono, non riesco a sentire la spinta delle gambe, certo il percorso è piatto, ma mi sembra il solo lato positivo di tutta la gara. A completare il disappunto, constato che la segnaletica è completamente sballata: il cartello del primo km appare quando, secondo il ben più attendibile gps, sono stati percorsi appena 600 metri. Insomma, tutto sembra far presagire ad una giornata nera e da dimenticare.
 
Al quarto chilometro medito di fermarmi, non tanto per la paura di farmi male (in caso di caduta, al massimo rotolerei nel fango come un maiale) quanto per l’insensatezza di condurre una gara senza alcun divertimento, senza viverne lo spirito né goderne lo scenario. C’è pubblico lungo il tracciato, lo sento, mi fa piacere perché è sportivo ed incita tutti, ma tutto ciò non basta a farmi piacere questa corsa oggi.
Intorno al quarto chilometro giungo all’estremità sud del lungo Tamigi e, dopo la prima delle due suicide inversioni di marcia  “a U”, risalgo verso nord per tornare in zona start-finish (ottavo km), salvo poi percorrere un altro chilometro, invertire ancora il senso di marcia con curva “a U” e sparare l’ultimo chilometro a tutta birra.
 
A tenermi in corsa sarà solamente il positivo riscontro cronometrico al quinto chilometro (19’15): non male viste le circostanze e considerato che qualsiasi tempo sotto ai 40’ mi sarebbe andato benissimo.
 
Decido di continuare, malgrado il nervosismo, non vengo mai passato e sono invece io a superare alcuni dei podisti che costituivano il gruppetto iniziale dei quindici di testa.
La mia gara inizia ad avere senso quando, intorno al sesto chilometro, avvisto a un’ottantina di metri un solitario avversario, più o meno dell’età mia. Lo vedo con la sua maledetta maglia tecnica verde ed i capelli rossi! Davanti a lui nessuno appare raggiungibile: la mia gara campestre da quel momento diventerà il perfido roscio. Trovo una ragione valida per giungere al traguardo.

Sinceramente fatico non poco a riprenderlo: al settimo chilometro è a meno di tre metri da me, ma vedo che non molla, si muove benissimo sul tracciato fangoso, non evita alcuna pozzanghera, anzi sembra godere nell’immergere i piedi fino alle caviglie in quei liquami marroni. Le sue traiettorie sono molto più sensate e lineari rispetto ai miei zig-zag e saltelli laterali.

Passo davanti alla zona start dell’ottavo chilometro e, ringalluzzito dal pubblico, decido di affiancarlo, un po’ perché mi sono rotto di prendere il fango delle sue scarpe e un po’ per fargli sentire un minimo di pressione psicologica.

Il roscio non solo non si scompone ma, al contrario, dopo qualche centinaio di metri allunga e si riattesta a 3 metri da me. Mi sta antipatico, questo è certo, ma nell’affiancarlo ho sentito anche che ha il respiro pesante ed il fiatone (non che io fossi brillante come al Trofeo Sant’Ippolito...).
  
Mi apposto come un avvoltoio alle sue spalle e, poco prima del nono chilometro, inizio a vedere gli atleti davanti a me che tornano verso l’arrivo in senso inverso. Ne conto quattro o cinque, ma di certo non mi appago e non voglio darla vinta al roscio maledetto.

Procedo anche io e supero l’infame inversione a U, segnalata da un birillo a terra, e mi ritrovo ad affrontare l’ultimo chilometro sempre tenendomi incollato al tubo di scarico della lepre. Come in una maledizione, al km 9.4 inzio a sentire male al solito fianco destro, ormai un tormento per me. In Olanda lo stesso problema mi aveva letteralmente fatto crollare nel finale, a Nottingham non mi aveva impedito di chiudere decentemente l’ultimo chilometro, anche se mi aveva impedito qualsiasi velleità di volata. Stavolta? Beh, stavolta c’è un avversario da affrontare e, possibilmente, da sconfiggere. Si stringono i denti e si vedrà in questi ultimi seicento metri.

Accorcio le falcate aumentandone intensità e frequenza. Il fianco fa male, mi accosto di nuovo al roscio. Spero nel suo crollo, che non arriverà mai. Siamo adesso al km 9.5, non cede e anzi rilancia, allunga e si riattesta a un paio di metri da me. Pazienza, inizio a pensare di non avere più forze né possibilità di riprenderlo, anche perché l'inerzia della gara sembra a suo favore: io sono sofferente e lui in progressione. Da lontano vedo apparire il traguardo, non mollo e mi tengo alla distanza minima per non essere accusato di prenderne la scia senza tuttavian perderne il contatto.

A duecento metri dall’arrivo, ancora sullo sterrato, sento lo speaker ed il pubblico rumoreggiare ed incitare chi sta arrivando.

E’ stata una gara insensata, non mi è piaciuta, non guardo l’orologio con il tempo dal quinto chilometro, semplicemente non mi interessa oggi.
 
Non so cosa mi sia preso, ma a un certo punto semplicemente mi incazzo come cinghiale e decido che non posso darla vinta al roscio maledetto. Sparo tutte le cartucce che ho, non guardo più il terreno ed il fango; affronto l’ultimo rettilineo, quello sull’erba alta, transennato e animato dal pubblico, sprintando negli ultimi cento metri alla Ben Johnson delle Olimpiadi nel 1988 (quello dopato!): ginocchia alte e ampissimi movimenti delle braccia. Affianco il roscio, sono in fase di decollo, non reagisce, aziono i post-bruciatori e lo lascio sul posto senza che abbia neanche il tempo di reagire.  
Al traguardo gli darò due secondi, non ho vinto LA gara ma la MIA personale gara, togliendomi una bella soddisfazione proprio quando il fianco faceva male.

Posa plastica in zona arrivo
La cronaca parlerà anche di un eccellente sesto posto assoluto, conseguenza più del non irresistibile livello generale che della mia performance! Sesto su 668 arrivati, volente o nolente, è oggettivamente un gran bel risultato.


I segni della battaglia

Maglia infangata, gara fortunata

Il tempo di gara, invece, sarà molto meno brillante di quanto fatto registrare al Sant'Ippolito ma non certo da buttare via (38'55).


Split
Time
Distance
Avg Pace
Summary38:56.810.033:53
13:48.41.003:48
23:53.21.003:53
33:48.81.003:49
43:52.21.003:52
53:53.21.003:53
63:55.81.003:56
74:00.21.004:00
83:55.11.003:55
93:57.91.003:58
103:47.21.003:47
11:05.00.03


Come ricordava il coach nel pre-gara, in corse campestri come questa il piazzamento è l’unica cosa che conta, ben più del tempo e del cronometro! Unito al ceffone podistico rifilato al roscio maledetto, questo sesto posto ha dato un sapore tutto sommato dolce ad una corsa che il prossimo anno difficilmente mi rivedrà fra gli iscritti.


Next event il 3 novembere con la Pine Ridge Run, gara campestre di 10 km molto “ondulata” e tutta all’interno di un bellissimo bosco vicino casa! Stavolta le scarpe da trail non mancheranno ai miei piedi!!

Viva i podisti di tutto il mondo, infangati o rosci che siano!!

2 comments:

  1. hahaha, hai reso perfettamente l'idea e le foto post "battaglia" sono emblematiche!!! Ma all'arrivo almeno c'è stata la stretta di mano con il roscio modello football manager inglesi?

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  2. A dire il vero questa volta mi sono dileguato io subito dopo l'arrivo. In cuor mio mi sentivo in colpa di averlo bruciato nel finale, quando il roscio era stato davanti a me per 9.9 km di gara!

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